Si è svolto questa mattina il primo incontro di Vocazione Servizio Pubblico, il ciclo di seminari con cui l’Università La Sapienza vuole creare un momento di dibattito pubblico sulla Rai.
A maggio 2016 infatti scadrà la Convenzione con lo Stato: in prospettiva di una nuova concessione, il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRiS) si propone di essere un focolaio di idee e proposte per ripensare la Rai. Anzi: una vera e propria stanza della Pallacorda in cui riunirsi e confrontarsi. L’obiettivo è accompagnare in parallelo i lavori di riforma del Servizio Pubblico con riflessioni ed eventuali proposte.
Secondo Mario Morcellini, direttore del CoRiS, intorno alla Rai «c’è una bolla comunicativa poco trasparente che la penalizza al di là dei parametri oggettivi, enfatizzando invece tutti gli indicatori di una crisi». Per correggere questa «retorica prevedibile» perciò, «non c’è niente di meglio che ripartire dai dati, dai confronti storici, dalle comparazioni internazionali».
La Rai non è solo un’azienda, ma la maggiore industria culturale del Paese: come Università, aggiunge Morcellini, occorre segnalare la «la rottura del patto comunicativo con i giovani».
A proposito di giovani, prima degli interventi successivi, viene mostrato un video in cui si chiede un’opinione ad alcuni studenti del dipartimento. La disaffezione al piccolo schermo appare subito evidente: a quali siano i programmi più odiati, c’è chi risponde, oltre a uno scontato Grande Fratello, L’Isola dei Famosi, cioè una trasmissione che manca dalla programmazione televisiva già da due anni e tornerà a gennaio 2015. Segno che i ragazzi di tv ne guardano poca.
Un aspetto che viene subito colto da Morcellini: il dibattito sul Servizio Pubblico è ormai riduttivo, incattivito e raramente contornato da dati utili; i giovani sono dentro la «bolla speculativa», ripetono sulla Rai esattamente quello che ne dicono i soliti attacchi populistici.
Apre la giornata Fabio Bassan, docente di Diritto Unione Europea: una definizione di Servizio Pubblico non è mai stata data: la Corte Costituzionale dice che lo è tutto quello che non verrebbe altrimenti offerto dal mercato, a partire dalle infrastrutture fino al servizio audiovisivo.
Una volta stabilito cosa sia il servizio pubblico, i punti da discutere sul piano metodologico sono due: finanziamento e gestione.
Per Augusto Preta (CEO, IT Media Consulting) il servizio pubblico deve fornire qualcosa che oggi gli utenti non trovano altrove. Il tema chiave è quindi la consultazione: si può iniziare a ragionare mettendo in campo tutti gli elementi per una soluzione dei punti critici.
Piero De Chiara, esperto telecomunicazioni e media, anticipa che la prossima concessione durerà per circa 10 anni: alla luce dei veloci cambiamenti tecnologici degli ultimi anni, sarebbe impensabile una lunga come la precedente, in atto dal 1994.
De Chiara punta l’attenzione sulla «necessità di coesione sociale»: bisogna garantire un livello di qualità gratuita per tutti, senza allontanare le nicchie che, al momento, migrano sulle reti del digitale o su quelle a pagamento o, ancora, in rete.
È necessario creare valore pubblico dentro i consorzi nazionali: chi non ce l’ha, come noi al momento, rimarrà indietro. Per quanto riguarda i contenuti prodotti invece, ci mancano gli addetti: l’Italia contribuisce al commercio mondiale per meno dell0 0,5% con le sue esportazioni audiovisive. «Non commuoviamoci -conclude- per un Oscar, perché all’estero non ci guardano, non ci conoscono: stiamo scomparendo. Stiamo diventando un Paese che non racconta più storie al resto del mondo».
Nel frattempo, proprio durante l’affondo, in sala è appena entrato Giancarlo Leone, direttore di Rai Uno.
L’ultimo relatore della mattinata è Angelo Guglielmi, presentato da Morcellini più che come dirigente televisivo, come intellettuale. La priorità, sostiene Guglielmi, è l’autonomia: liberare la Rai dall’ egemonia dei partiti politici e da quella «mascherata» rappresentata da un’idea di cultura scolastico-accademica.
L’altra questione che si pone è l’offerta, perché l’attuale struttura produttiva Rai è costituita sullo sceneggiato, sul Festival di Sanremo, sul varietà del sabato sera e sui telegiornali. Un modello vecchio, che va ristrutturato proprio sulla base dell’offerta che si vuole costruire.
Un altro nodo da sciogliere è quello costituito dalla risorse: il sistema televisivo italiano è «poverissimo», sia in quanto a disponibilità finanziarie che a occupati; ne consegue un’incapacità di generare lavoro. Qualche numero: abbiamo 47mila dipendenti in tutto, cinema compreso, contro i 74mila della Francia e i 135mila dell’Inghilterra.
Una delle priorità è produrre per il mercato, non solo per l’Italia; al momento però non è possibile solo con i ricavi derivanti da canone e pubblicità.
Al termine degli interventi, la domanda centrale la pone il regista Roberto Faenza: davvero si può credere che la politica sia realmente intenzionata a cambiare lo stato attuale delle cose? Morcellini risponde che i segnali sembrerebbero esserci: «mai visto una politica così determinata a rompere il cordone».
Giavambattista Fatelli, docente del Dipartimento, osserva con ironia che «il servizio pubblico è un’idea di Paese: la pasticca che addormenta il vecchietto è un servizio, ma non è il servizio pubblico».
La provocazione finale è affidata a Franco Monteleone, studioso della storia della tv: «il servizio pubblico in Italia non è mai esistito: fa eccezione l’EIAR, nonostante il regime politico del tempo».
Il prossimo seminario di Vocazione Servizio Pubblico è fissato per il 17 settembre, e riguarderà il tema dell’innovazione; a breve verrà attivato un apposito dominio.
Il Servizio Pubblico al centro del dibattito accademico. Dopo il convegno svoltosi lo scorso maggio nella sede Rai di Viale Mazzini, è ora l’Università La Sapienza ad aprire una riflessione sulla Rai, a partire da oggi.
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